lunedì 25 aprile 2011

DONNE PARTIGIANE: LA RESISTENZA TACIUTA

Trentacinquemila le partigiane, inquadrate nelle formazioni combattenti; 20.000 le patriote, con funzioni di supporto; 70.000 in tutto le donne organizzate nei Gruppi di difesa; 16 le medaglie d'oro, 17 quelle d'argento; 512 le commissarie di guerra; 683 le donne fucilate o cadute in combattimento; 1750 le donne ferite; 4633 le donne arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti; 1890 le deportate in Germania. Sono questi i numeri (dati dell'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia) della Resistenza al femminile, una realtà poco conosciuta e studiata.
Durante la guerra le donne, non solo si erano fatte carico delle responsabilità sociali tradizionalmente maschili, sostituendo l'uomo nel lavoro e nel mantenimento della famiglia, ma avevano anche scelto di schierarsi e combattere, nelle diverse forme possibili, la lotta resistenziale, ribaltando la consueta divisione dei ruoli maschile e femminile.
Nei libri di storia si accenna appena alla partecipazione delle donne alla Resistenza, sebbene il loro apporto si fosse rivelato determinante ai fini di una maggior efficacia dell'organizzazione delle formazioni partigiane, entrando a far parte di diritto nella storia della Liberazione nazionale: le donne si occupavano della stampa e propaganda del pensiero d'opposizione al nazifascismo, attaccando manifesti o facendo volantinaggio, curando collegamenti, informazioni, trasportando e raccogliendo documenti, armi, munizioni, esplosivi, viveri, scarpe o attivando assistenza in ospedale, preparando documenti falsi, rifugi e sistemazioni per i partigiani.

Risulta evidente che un aiuto di questo tipo, considerato dalle stesse protagoniste come "naturale", trova difficoltà ad essere formulato storicamente in modo ufficiale. Infatti i dati numerici sopra riportati non sono completamente attendibili, poiché la maggior parte di essi si ricava da riconoscimenti ufficiali e "premiazioni" assegnate a guerra conclusa sulla base di criteri militari, in cui la maggioranza non rientrava o non si riconosceva. Di fatto veniva riconosciuto partigiano chi aveva portato le armi per almeno tre mesi in una formazione armata regolarmente riconosciuta dal Comando Volontari della Libertà ed aveva compiuto almeno tre azioni di sabotaggio o di guerra.
Ma l'azione femminile, oltre alla direzione dettata dalla necessità di dare assistenza ai partigiani, attraverso molteplici attività materiali, si orientava anche politicamente: numerosissime donne, di ogni estrazione sociale, operaie, studentesse, casalinghe, insegnanti, in città, così come in campagna, organizzarono veri e propri corsi di preparazione politica e tecnica, di specializzazione per l'assistenza sanitaria, per la stampa dei giornali e dei fogli del Comitato di Liberazione Nazionale.
La seconda guerra mondiale ha permesso alle donne, in un certo senso, di emergere dall'anonimato e le ha trasformate in soggetti storici finalmente visibili, nell'esperienza di sostegno e solidarietà offerta all'azione partigiana; solidarietà che ha valicato l'ambito familiare ed è diventata valore civile di convivenza.

L'antifascismo fu, per le donne, una scelta difficile, ma libera da costrizioni esterne: non fu dettata dal timore di rastrellamenti messi in atto in seguito ai bandi, o dallo stato di evasione che fece confluire nelle bande partigiane migliaia di giovani. In più quelle che partecipavano attivamente non erano né fanatiche, né guerrafondaie, ma donne normali. La Resistenza, per queste donne, non significò impugnare un moschetto, ma soprattutto significò la conquista della cittadinanza politica.
Il desiderio di liberarsi dai tedeschi si intrecciava con quello di conquistare la parità con l'uomo: ciò esprime il fatto che allora la donna acquistò la consapevolezza del proprio valore e delle proprie capacità, derivante dalla rottura del sistema di controllo sociale causata dalla guerra. Si trattò di una guerra nella guerra, della battaglia per la loro emancipazione dopo una millenaria subordinazione. La motivazione politica portò ad un risultato importantissimo: la richiesta di un riconoscimento di un ruolo pubblico nel nuovo sistema democratico, fino ad allora negato alla donna da una società prevalentemente maschilista. 
Da un articolo della giornalista Stefania Maffei

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